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di Ettore Ferrari

A posteriori è sempre facile (o più facile) fare delle analisi, processi e valutazioni sull’andamento di fatti e circostanze. Certo la debacle di Primoz Roglic alla penultima fatica di un Tour oramai considerato in tasca merita opportune riflessioni.

Superfluo iniziare dal fatto che Roglic ha perso da un ragazzo giovanissimo, ma di un talento e di una forza (fisica e mentale) straripante. Tadej Pocacar è un fuoriclasse e non lo si è scoperto a La Planche des Belles Filles. Annunciato dal successo al Tour de l’Avenir (2018) è passato pro’ lo scorso anno senza timori reverenziali vincendo e convincendo. Ne sa qualcosa proprio Roglic, che ha dovuto sudare nel contenere il connazionale nella Vuelta 2019. Lì Roglic vinse e Pogacar giunse 3°. Detto che Tadej è un fuoriclasse autentico analizziamo quali possono essere stati gli errori commessi da Primoz.

Prigioniero della forza di un super team – Ma come, per tre settimane (e già nelle corse antecedenti la Grande Boucle) non si è fatto altro che lodare la compattezza della Jumbo-Visma, e la si considera un elemento sfavorevole? Certamente, Roglic ha goduto di una squadra praticamente perfetta, che lo ha spalleggiato forse ancor meglio di come avevano fatto in passato Sky per Wiggins, Froome e Thomas, Ineos (che poi era sempre la Sky…) per Bernal. Il lavoro compiuto in ogni dove da Tom Dumoulin, Wout Van Aert, Seppe Kuss, George Bennett, Robert Gesink, Tony Martin e Amund Jansen è stato impeccabile. Nessuna sbavatura, ineccepibile da ogni punto di vista. E allora? E allora Roglic (e il suo staff sicuramente) ha compiuto l’imperdonabile errore di correre sempre di rimessa. Nessuna azione degna di essere menzionata, nemmeno quando ha vinto (Orcières-Merlette) non è andato oltre lo svolgimento di un diligente compitino: lavoro fantastico dei suoi, poi finalizzato negli ultimi metri. Con questa condotta, la formazione giallonera ha stracciato il gruppo, infliggendo distacchi enormi oltre la Top-Ten (Nairo Quintana, 17° ad oltre un’ora!). Appunto oltre i primi 10… Infatti, una volta ridotto all’osso il gruppo dei migliori, Roglic si è accontentato di prendere qualche secondo qua e là. Troppo poco per contenere la furia di un Pogacar letteralmente sfrontato e senza alcun timore reverenziale di fronte al più blasonato e anziano connazionale. Questa è una chiave di lettura nuova, ma che può inquadrare da un’altra prospettiva la grande sconfitta di Roglic.

Il calo della terza settimana – Questa, invece, è stata sin da subito la più accreditata. Roglic era al top già dai primi di agosto (senza considerare i campionati nazionali a giugno, dove lui e Pogacar si erano divisi le maglie: Primoz vittorioso nel titolo in linea e Tadej in quello a contro il tempo). Al Tour de l’Ain ha asfaltato Bernal & Quintana, vincendo 2 tappe, un secondo posto, la classifica finale e quella a punti. Al Delfinato era maglia gialla (dopo aver vinto una tappa) ed era ad un passo dal trionfo, poi l’abbandono alla vigilia dell’ultima tappa per i postumi di una caduta. Al Tour lui e la squadra non si sono tirati indietro sin dai primi chilometri. Non dimentichiamo, poi che ha preso la maglia gialla al termine della nona tappa e l’ha portata quasi per due settimane (11 giorni). Bollito? Sicuramente appannato, visto come ha corso e concluso la cronometro. Ma il fatto che Roglic cali nell’ultima settimana e una chiacchera. Al Giro 2019, dopo aver indossato la maglia rosa, propri nel finale ha ripreso il podio; alla Vuelta 2019 ha preso la maglia rossa alla decima tappa ed è arrivato in trionfo a Madrid dopo ben 12 giorni di leadership. Non è poco. È invece un corridore che ha vinto molto in questi ultimi due anni, non risparmiandosi anche nelle brevi gare a tappe, che ha conquistato copiosamente (Paesi Baschi, Romandia, Slovenia nel 2018; Tirreno-Adriatico e Romandia nel ’19; Ain e un “quasi” Delfinato quest’anno). Più semplicemente, Roglic ha trovato uno più forte di lui. Adesso sarà dura assorbire il contraccolpo di questa cocente sconfitta.

Di Ettore Ferrari

Sono nato a Catania il 14 aprile 1971. In redazione dicono sempre che sono troppo preciso, da qui il nomignolo "nessun capello fuori posto". Sono la "Memoria storica" del ciclismo.